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Incursore di Giulia Nicolaio 

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Ci sono singoli che si scelgono per formare un duo. Io, se non avessi già una pizza preferita, una pizza jolly, mi perderei anche tra le opzioni del menù. Forse è per pigrizia, forse per esperienza. Le storie serie della mia vita le ha sempre scelte il destino –una portata a sorpresa di un menù fisso, insomma. Una sola volta ho provato a pianificare un fidanzamento quasi a tavolino. Un disastro. Quindi ripeto, per pigrizia e per esperienza. Non esco con qualcuno che scelgo perché è il mio tipo. Aspetto –non proprio in modo paziente, ammetto, ma aspetto. Quando la persona è quella giusta si sente e basta. L’aria è frizzante: le particelle vibrano ad un ritmo altissimo perché il (colpo di) fulmine è in agguato. 

Il principe azzurro arriva quando meno te lo aspetti, anzi arriva quando hai la testa talmente invasa dal caos che non lo cerchi nemmeno. Lo scorgi in lontananza, a cavallo, dalle vetrate di un pub marcio o lo vedi emergere dall’acqua con la tavola da surf mentre tu sei sulla veranda a farti i peli con il Silkepil...

Il mio era un incursore: il 4 gennaio del 2013 si lanciò con il paracadute da un aereo militare e piombò giù, atterrando con estrema delicatezza in mezzo alla pista del Tenax. 

A favore della teoria del destinati e non scelti, ecco la storia che la dimostra. 

Insieme alle amiche di sempre, decisi di staccare il cervello e bere fino a dimenticare di esistere anche solo per poche ore (ero in crisi post traumatica da fine del primo amore importante). Lui era con i suoi amici (predatori più che incursori). I nostri gruppi si incrociarono quando i gradi alcolici che scorrevano nei nostri sistemi circolatori non erano più segnalabili con il solo povero test del palloncino. I predatori accerchiarono me e le mie amiche (capii dopo che loro, più esperte di me nel fare il censimento del bestiario pratese, conoscevano i personaggi ed erano ben disposte alla fusione). Uno ci provò con me, mi baciò. Poi ci provò con un’altra, così che la sua evanescente esistenza fu ben presto archiviata. 

Poi, di colpo, eccolo: con un occhio mezzo chiuso per il sonno e con l’altro confuso dal rum che si versava goffamente un po’ in bocca e un po’ sulla camicia, mi trovò in quel carnaio. Io ero come una presenza eterea, bendata dalla divina Vodka Sky, completamente disinteressata a ciò che mi avveniva intorno; ondeggiavo sulle note di Follow rivers di Lykke Li che cantavo pur non conoscendo le parole. Mi disse qualcosa nell’orecchio che, a quanto pare, mi convinse a farmi avvinghiare. Era un armadio a due ante, però con fare rassicurante. Ballavamo e ci baciavamo e bevevamo. Poi mi staccai, in un momento di lucidità perché così cullata e sorretta ebbi paura di addormentarmi. Riuscii a scollare le palpebre e riacquistare il senso della vista, seppur annebbiata. Mi guardai intorno per ritrovare le mie amiche, ma non feci in tempo, perché mi sentii tirare per un braccio nella direzione opposta fino a ritrovarmi faccia a faccia con un biondo dagli occhi azzurri. Si vede che per essere sicuro di raggiungere l’obiettivo, Cupido mandò addirittura un puttino a farmi il lavaggio del cervello. Mi raccontò, urlandomi nell’orecchio, un elenco puntato delle qualità del suo amico, cercando di corrompermi con qualche sorso del suo drink. Dopo un po’ di “chiacchere”, mi riconsegnò all’incursore. Ballavamo e ci baciavamo e bevevamo. E poi di nuovo cambio di protagonista e di nuovo colpi di complimenti che mi rintontivano più dell’alcool. Ad un certo punto la mia bocca, in completa autonomia, dichiarò al puttino: <<Ma a me piaci te!>>. 

Mi rispose che il suo cuore purtroppo batteva già per un'altra puttina –HO DETTO PUTTINA! – sennò non si sarebbe fatto di certo scrupoli. 

Entrava un po’ di luce dalla finestra. Era tardo pomeriggio.

L’amica che aveva dormito da me se n’era andata verso mezzogiorno. Avevamo messo la sveglia. In coma, avevo aspettato che si preparasse, poi dopo averla salutata mi rimisi a dormire. 

Mi alzai, aprii la finestra ma ricrollai a sedere sul letto per un giramento di testa improvviso. Lo specchio di fronte al mio letto mi rimandava nitidamente tutto l’hangover che sfoggiavo, ero ancora mezza truccata. Presi il cellulare e controllai i social, nell’attesa di riprendermi. Su Facebook c’era una richiesta d’amicizia. Oddio no, è lui! Ma come..? Ah, che stupida, mentre ballavamo gli ho detto il nome e, per giunta, pure il cognome. Insomma, bruttino forte eh! Ma dove ce l’ho il cervello quando sono in botta?! Si, va beh. 

Comunque accettai. 

Quando sembrò che la stanza avesse smesso di girare, mi alzai per andare in cucina a fare colazione (tanto ormai avevo acquisito un jet leg mastodontico, tanto valeva assecondarlo). Al restauro ci avrei pensato dopo. Una sfida alla volta. Mentre stavo spalmando la marmellata ai frutti di bosco su una fetta biscottata, il cellulare si illuminò per avvertirmi che era arrivato un messaggio. Mmh, così no però eh! 

<<Non so come ma mi son ritrovato un golfino in mano. Buongiorno. Mi sa che è vostro.>>

Primo pensiero: come minimo ce l’hanno rubato così avevano una scusa per rivederci. Comunque io non avevo nessun golfino. 

<<Ciao, ora controlliamo. Grazie ☺>>

Se non avessi messo il sorriso alla fine, si potrebbe pensare che questo messaggio l’avesse scritto la segretaria di un commercialista o di un notaio. 

<<Se fate festa anche stasera ci si vede e te lo rendo… fammi sapere! Bacio.>>

Bacio? Cos’è tutta questa confidenza? Guarda che i baci di ieri notte non eravamo io e te a darceli, ma le nostre labbra fradice di alcool. Anche tu eri ubriaco, come fai ad essere già così sicuro di tutto? E soprattutto come fai ad esserti già ripreso?! 

Aspettai a rispondergli, cercai prima di accertarmi se una delle mie amiche aveva davvero lasciato un golfino. Si, trovata la proprietaria. Fantastico, dovrò anche riscrivergli adesso. 

<<Allora è nostro! Stasera le altre vanno a ballare, se andate a ballare nello stesso posto vi vedete, così puoi renderglielo. Io devo riprendermi ancora un altro po’.>>

 

Il giorno dopo chiesi alle mie amiche se si erano visti. Si, ma il golfino non glielo avevano chiesto e lui non glielo aveva reso. Infatti:

<<Non te l’ho potuto rendere perché l’avevo lasciato in macchina…>>

Ma va’? Come minimo vuole aspettare di rivedere me per renderci questo benedetto golfino! Infatti cosa vuol dire “l’avevo lasciato in macchina”? Vallo a prendere, no? Ma poi anche la mia amica non può far senza? 

 

Dopo qualche giorno tornammo in discoteca, se così si può chiamare quel bunker nella nostra città. Tutte vestite fighe, con tacchi altissimi, arrivammo a far la fila e capimmo che era “SERATA HIP HOP”. Una volta dentro ci rendemmo conto che l’età era un po’ più bassa del normale e, soprattutto, che il dress code era magliette larghe da basket, tuta o jeans largoni, sneakers. Perfetto. Perfette. Perfettamente fuoriluogo. Decidemmo comunque di restare. 

Dopo le 2.00 i ragazzi più piccoli iniziavano ad andare via, così c’era più spazio per ballare e camminare e respirare. Verso l’ora di chiusura, decidemmo che poteva essere arrivato il momento di andare a casa. Successe qualcosa che non ricordo, ma ad un certo punto alcune erano già uscite e altre erano ancora dentro. Così mi immolai, nonostante il dolore ai piedi per quei maledettissimi tacchi fuori luogo, per fare la spola tra le une e le altre e cercare di ricongiungerci. Con la faccia che sbuffava e la camminata di una giraffa con l’artrosi, mi incamminai verso il lungo corridoio al fianco della pista. Alzai lo sguardo, vidi spalmati sul muro il gruppo di amici dell’incursore. E lui. D’istinto, raddirizzai la mia postura con un colpo di reni e cercai di ricentrarmi per fingere una camminata più armonica. Visto che c’eravamo solo noi in quel corridoio, mi sembrava di dover affrontare una passerella assediata da spettatori, fotografi e giornalisti, che non aspettavano altro che la caduta. Accelerai il passo per liberarmi quanto prima da quell’imbarazzo. Quando passai accanto a lui, però, non resistetti e lo guardai. Mi stava fissando mentre beveva dalla cannuccia del suo drink. Mi sembrò che avesse la tipica espressione curiosa di uno spettatore al cinema che beve coca-cola e mangia popcorn. Ma forse questa impressione fu solo frutto della mia immaginazione. Nel suo sguardo cercai un po’ di comprensione, i miei occhi dicevano “Ti prego, non guardatemi tutti”. Quello sguardo fisso continuò ancora qualche frazione di secondo e non riuscii a sostenerlo, abbassai lo sguardo e finalmente girai l’angolo della salvezza. Durante la passerella del ritorno, quella finale, fui protetta dalle risatine scambiate con le mie amiche.

Una volta salita in macchina, tra la musica alta che tenevano le altre e le urla che servivano loro per farsi sentire, rimasi come bloccata in pausa. Una volta a casa, salii le scale, ma, invece che dirigermi in camera andai sul balcone, mi sedetti sulla panchina e accesi l’ultima sigaretta della serata. Alzai gli occhi al cielo e ammirai le stelle. Lo facevo sempre da ragazzina, d’estate, quando tornavo a casa in scooter: mi sdraiavo con ancora il casco indosso e pensavo con le stelle. Sì, perché loro riescono a sciogliere i nodi del pensiero umano con quella quiete ordinata. Presi il cellulare e scrissi un messaggio:

<<Non so perché non ti ho salutato. Tu perché non mi hai salutato?>>

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